Farmaci, quanto serve il made in Italy?

Farmaci, quanto serve il made in Italy?

Farmaci, quanto serve il made in Italy?


Una vera politica industriale per il settore farmaceutico dovrebbe consolidare il ruolo del nostro Paese come piattaforma produttiva in Europa e nel mondo e sviluppare drasticamente le attività di R&S bio-farmaceutiche. Ma per centrare questi obiettivi servono interventi specifici, coerenti e integrati che aumentino l'attrattività dell'Italia. Le parole d'ordine: aumentare la "facilità di fare business" in Italia; colmare il gap che il "pacchetto di incentivi fiscali" italiano mostra rispetto ai principali Paesi Ue; creare un "patent box" (tassazione dei redditi da proprietà intellettuale) competitivo rispetto al mercato comunitario. È questa la «ricetta» indicata da A. T. Kearney nello studio, dal titolo «provocatorio», «Ci serve davvero un'industria farmaceutica nazionale? Quali obiettivi e interventi di politica industriale per il settore farmaceutico italiano».

Quel che è certo per ora è che si tratta di un settore di punta per contributo allo sviluppo delle conoscenze e all'export, e per la qualità dell'occupazione. Le attività produttive e di ricerca e sviluppo farmaceutiche generano circa 6,3 mld di euro di Pil, ossia ben il 60% del Pil del settore farmaceutico, pari a 10,4 mld - il restante 40% è generato dalle attività commerciali - e il 48% del totale incluso l'indotto (13,2 mld).
In termini di occupazione, tali attività valgono circa il 43% del settore (ca. 27mila occupati su un totale di 63mila addetti), nonché 2,3 mld di investimenti e 17,2 mld di export.

Le esportazioni farmaceutiche valgono da sole all'incirca quanto l'insieme degli altri settori ad alta tecnologia, e sono cresciute a un tasso medio annuo del 12,3% tra il 2009 e il 2012, arrivando a rappresentare il 4,4% delle esportazioni totali del Paese.

Inoltre, il settore farmaceutico è terzo tra i settori manifatturieri per spesa in ricerca e sviluppo in valore assoluto (11% del totale), e secondo per incidenza della spesa in ricerca e sviluppo sul fatturato; i suoi 6.000 ricercatori fanno del farmaceutico il terzo settore manifatturiero per occupati in R&S in Italia, sia in valore assoluto che come incidenza sugli addetti del settore.

Un settore ad alto impatto economico (ogni nuovo occupato nel farmaceutico genera circa 5 nuovi posti di lavoro locali) e non. Basti pensare ai benefìci tratti dai pazienti che partecipano agli studi registrativi di nuovi farmaci; dalle strutture sanitarie, che sono stimolate e aiutate a mantenere altissima la qualità dei propri processi e sistemi per poter partecipare agli studi registrativi; dai medici che partecipano a tali studi.
Eppure l'analisi comparata del settore nell'Eu-5 (Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna, Spagna), delinea l'Italia come un Paese "grande produttore" e "poco ricercatore".

A fronte di un'incidenza del mercato nazionale pari al 18% del totale Eu-5, il valore della produzione farmaceutica italiana pesa il 24% e la spesa in R&S il 7% del totale Eu-5. L'Italia è quindi "sopra fair share" in termini di attività produttive e "sotto fair share" in termini di attività di ricerca e sviluppo: se queste ultime fossero proporzionate al peso relativo del nostro mercato, nel nostro Paese ci sarebbero circa 10mila ricercatori in più e ulteriori 2 mld di spesa in R&S farmaceutica, cioè quasi 2,5 volte le grandezze in essere.

Il nostro Paese sembra quindi particolarmente capace di attrarre, mantenere e sviluppare una forte presenza produttiva farmaceutica. Ma come sempre, anche questo quadro positivo presenta punti di forza e punti di debolezza - e relativi opportunità e rischi - apprezzabili con un'analisi granulare.

La vera eccellenza è infatti nella produzione di sintesi chimica, caratterizzata da un saldo commerciale positivo e crescente; ma la presenza nella produzione dei farmaci biologici è fortemente inferiore rispetto agli altri Paesi europei, con un export statico e un saldo commerciale negativo e in peggioramento - unico caso tra i principali Paesi europei.

A fronte di competenze di assoluta eccellenza a livello mondiale nella ricerca pre-clinica, si assiste tuttavia a dismissioni dei centri ricerca italiani da parte dei grandi player farmaceutici globali: nel 2011 il Centro ricerche Sanofi a Milano (chiuso), e quelli Pfizer a Nerviano e a Catania (venduti); nel 2010 il Centro ricerche Gsk a Verona (venduto); nel 2009 quello Msd a Pomezia (venduto). I centri di ricerca venduti sono divenuti per lo più Contract research organization (Cro); quello di Catania non è stato ancora riattivato dopo il cambio di proprietà.

Il nostro Ssn è uno dei migliori sistemi di salute al mondo eppure il numero di pazienti arruolati in studi clinici e numero di studi clinici sono molto al di sotto della soglia di "fair share" e i numeri sono in ulteriore discesa.

Il motivo di questo fenomeno non è da ricercarsi in un problema di competenze. Al contrario, nella ricerca l'Italia ha competenze di assoluta eccellenza: se consideriamo l'oncologia, la prima area terapeutica per investimenti di R&S, l'Italia è il quinto Paese al mondo sia per il numero di pubblicazioni scientifiche, sia per la loro rilevanza (misurata in termini di impact factor). Siamo vicinissimi alla Germania, precediamo di molto la Francia. Per quanto riguarda le attività di sviluppo clinico - che valgono oltre il 55% della spesa mondiale in R&S dell'industria - l'Italia occupa invece la posizione n. 23 (terz'ultima) per numero di pazienti arruolati in studi clinici condotti da imprese farmaceutiche nel triennio 2010-2012, laddove la Germania è in terza posizione, il Regno Unito in nona, la Francia in dodicesima e la Spagna in quindicesima. Insomma le potenzialità ci sono tutte ma con questi trend, l'universo perderà presto le nostre tracce. È arrivato il momento delle scelte.

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