Gb, il fine vita sarà deciso dai medici di famiglia
Non sarà più necessaria l'autorizzazione del giudice per staccare la spina. La normativa italiana
Diventa molto più facile staccare la spina ai pazienti che versano in stato vegetativo nel Regno Unito. Lo ha stabilito la Corte suprema britannica con una sentenza storica, in base alla quale non sarà più chiesta l'autorizzazione legale per interrompere l'alimentazione artificiale dei malati e basterà quindi un accordo tra i medici e i familiari. Sino ad oggi, invece, era necessario l'intervento della Court of Protection, che doveva esprimersi sui singoli casi, lasciando passare mesi e talvolta anni prima che si arrivasse a un pronunciamento finale, per di più pesando sulle tasche delle famiglie con ingenti costi legali.
Nell'annunciare la sentenza, il magistrato Lady Black, ha sottolineato che non si incorre in una violazione della Convenzione per i diritti umani, nello staccare la spina, qualora le condizioni del paziente appaiono irreversibili dal punto di visto medico e non ci siano quindi prospettive di una ripresa di coscienza. Il caso che ha permesso questa decisione è quello di un 52enne colpito da un grave attacco di cuore, con conseguente danno cerebrale. L'uomo, di cui la stampa del Regno non rivela il nome per motivi di riservatezza, dallo scorso giugno si trovava in stato vegetativo. La sua famiglia, di fronte ai lunghi tempi di attesa per l'autorizzazione a staccare le macchine per tenerlo in vita, si è quindi rivolta alla giustizia del Regno. Nel frattempo l'uomo è deceduto ma il procedimento è andato avanti e ora la vittoria ottenuta dai suoi legali potrebbe cambiare la sorte di migliaia di persone che si trovano in condizioni irreversibili negli ospedali e nelle case di cura del Paese.
Si parla di 1500 nuovi casi ogni anno solo in Inghilterra e Galles, rispetto ai quali ora si potrebbe utilizzare il pronunciamento della Corte Suprema. Se le associazioni in favore del fine vita esultano, quelle anti-eutanasia sono però insorte. Il dottor Peter Saunders, direttore del gruppo contro la morte assistita 'Care Not Killing', si è detto "molto preoccupato e deluso per la decisione della Corte suprema", in quanto così i "pazienti saranno di fatto affamati e disidratati fino alla morte". Immediata la risposta dell'associazione 'Compassion in Dying', secondo cui, invece, la sentenza permetterà alle persone più vicine al malato - quindi i parenti e il suo team medico - di prendere la decisione nel migliore dei modi, anche se si dovesse trattare di quella più difficile.
Il fine-vita in Italia
La Corte Suprema in Gran Bretagna ha stabilito che non sarà più richiesta l'autorizzazione legale per porre fine alle cure per i pazienti in uno stato vegetativo permanente - come anche nei casi più recenti dei piccoli Alfie Evans e Charlie Gard - ma basterà l'accordo tra i medici e la famiglia. In Italia è la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) o Biotestamento, del dicembre 2017, a regolare il 'Fine vita'. Prima dell'entrata in vigore della normativa, anche in Italia l'ultima parola in materia è spettata ai tribunali e vari sono stati i casi emblematici in nome della lotta per "una fine dignitosa", da Eluana Englaro a Dj Fabo.
La legge sul Biotestamento regolamenta le scelte sul fine vita, stabilendo che in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi ci sia la possibilità per ogni persona di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonchè il consenso o il rifiuto su accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche e singoli trattamenti sanitari, inclusi l'alimentazione e l'idratazione artificiali. Possono fare le Dat tutte le persone maggiorenni capaci di intendere e di volere. La redazione delle DAT può avvenire in diverse forme: atto pubblico, scrittura privata autenticata e scrittura privata consegnata personalmente presso l'ufficio dello stato civile del proprio Comune. Le Dat sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento. Prima della legge, tanti i volti che sono diventati veri e propri emblemi per la loro volontà di porre fine "con dignità" alla propria vita devastata dalla malattia. Una volontà che oggi, grazie alla legge sulle Dat, può essere accolta in modo certo nel quadro, appunto, di una norma dello Stato.
Prima del 2017, invece, l'ultima parola è sempre spettata ai giudici. Il primo a porre il tema dell'autodeterminazione del malato e della scelta sul fine-vita fu Piergiorgio Welby, attivista e co-presidente dell'Associazione Coscioni. Colpito da anni dalla distrofia muscolare, inviò al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano una lettera in cui chiedeva l'eutanasia. Il 16 dicembre 2006 il tribunale di Roma respinse la richiesta dei legali di Welby di porre fine all'"accanimento terapeutico". Pochi giorni dopo, Welby chiese al medico Mario Riccio di porre fine al suo calvario. Riccio staccò dunque il respiratore a Welby sotto sedazione, venendo poi assolto dall'accusa di omicidio del consenziente. Nel 2007, il caso di Giovanni Nuvoli, malato di Sla di Alghero. Ma è nel 2009 con il caso di Eluana Englaro, la giovane di Lecco rimasta in stato vegetativo per 17 anni, che il Paese si è diviso tra i favorevoli alla volontà del padre Beppino di far rispettare il desiderio della figlia quando era ancora in vita di porre fine alla sua esistenza se si fosse trovata in simili condizioni, ed i contrari.
Varie le sentenze di rigetto delle richieste dei familiari, quando è arrivata, per ben due volte, la pronuncia della Cassazione a favore della sospensione della nutrizione e idratazione artificiale. Tra i più recenti è il caso di Dj Fabo, morto in Svizzera con il suicidio assistito. A 39 anni, cieco e tetraplegico a seguito di un incidente stradale, chiedeva di "essere libero di morire" e giudicava "scandaloso" che i parlamentari non avessero avuto "il coraggio di prendere la situazione in mano".Fonte: Dottnet