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L'angolo della lettura

07/09/2025 - Department of war


        
Il Pentagono cambia nome: da “Difesa” a “Guerra”. Una svolta identitaria (e ideologica)

  Washington D.C. – Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, istituito nel 1789 da George Washington – e comunemente identificato per metonimia con il celebre edificio del Pentagono – ha mantenuto la medesima denominazione per oltre 160 anni, fino alla riforma del 1949 voluta dal presidente Harry Truman. Fu allora che vennero accorpati sotto un’unica sigla i Dipartimenti della Marina, dell’Esercito e dell’Aviazione, dando vita all’attuale “Department of Defense”.

  Oggi, quella definizione viene archiviata. In un annuncio carico di significati simbolici, il presidente degli Stati Uniti ha comunicato il cambio ufficiale di nome: non più "Difesa", ma "Dipartimento della Guerra". Una decisione che va ben oltre la forma. Lo stesso sito istituzionale è già stato modificato: da defense.gov a war.gov.

“È un nome molto più appropriato, soprattutto alla luce del momento storico in cui viviamo”, ha dichiarato il presidente, già candidato al Premio Nobel per la Pace, suscitando un’ondata di reazioni. “Avevamo una storia incredibile di vittorie quando si chiamava Dipartimento della Guerra. ‘Difesa’ è un termine troppo passivo. Vogliamo difenderci, certo, ma vogliamo anche essere offensivi, se necessario”.

  A fargli eco, con tono ancora più deciso, il Segretario alla Difesa – pardon, della Guerra – Pete Hegseth, che ha parlato di necessità di “ripristinare lo spirito guerriero dell’esercito americano”. Un ritorno alle origini, ha affermato, per “risvegliare lo spirito di vittoria delle due guerre mondiali”.

  Ma le parole non si fermano al lessico. Il cambiamento sarà anche sostanziale: nuovi nomi per basi militari e navi da guerra, in linea con la nuova dottrina. È già stato ordinato il cambio di nome per una petroliera intitolata al veterano della Marina e attivista LGBTQ+ Harvey Milk.

  Una decisione, questa, che ha scatenato reazioni accese anche all’interno del Congresso. Il senatore democratico Andy Kim ha definito la proposta “infantile”, affermando che “gli americani vogliono prevenire i conflitti, non celebrarli”. Ha poi invitato il presidente a rileggere i “Quattordici Punti” di Woodrow Wilson del 1918, pietra miliare del nuovo ordine mondiale del dopoguerra, che gettava le basi per la Società delle Nazioni, antesignana dell’ONU.

  Ma la storia, evidentemente, non è il cavallo di battaglia dell’attuale presidente. Già autore di dichiarazioni come l’idea di annettere la Groenlandia, ribattezzare il Golfo del Messico o proporre al Canada di diventare il 51° Stato americano, oggi firma un atto che non è solo provocazione: è una frattura profonda nell’identità politica e diplomatica degli Stati Uniti.

 L’Europa guarda (ancora) in silenzio

  E l’Europa? Di fronte a quella che appare come l’ennesima provocazione strategica, Bruxelles tace. Il principio latino nomen omen – il nome è destino – sembra calzare a pennello. Perché modificare il nome del principale organo militare statunitense non è solo un fatto simbolico: può preannunciare una nuova postura internazionale, più aggressiva, più interventista, meno diplomatica.

Ma dall’Unione Europea, per ora, nessuna reazione concreta. La tradizionale inerzia dell’apparato comunitario sembra prevalere, ancora una volta. L’Unione osserva, ma non agisce. Reagisce solo in ritardo, quando il danno è ormai fatto.

 Nel frattempo, le proteste iniziano a moltiplicarsi in diverse città americane. Manifestazioni spontanee, cortei, sit-in. C’è chi spera che da queste voci possa nascere un movimento di massa, capace di paralizzare il paese e fermare una deriva pericolosa.

  L’America ha una lunga storia di mobilitazioni civili, e in passato ha dimostrato di sapersi sollevare contro l’autoritarismo e l’ingiustizia. Ma stavolta, la sfida appare più complessa. Nessuna amministrazione statale, per ora, ha osato prendere pubblicamente le distanze. Strategia? Codardia? Paura di ritorsioni?

  Quel che è certo è che questa presidenza sta profondamente modificando l’immagine e il ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Con conseguenze che rischiano di essere dannose non solo per Washington, ma per l’intero equilibrio globale.

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